Ebbene sì, Lee Ranaldo è ancora un bel giovanotto, non più tanto sonico, ma un bel giovanotto.
Si allaccia al collo la chitarra e si butta sul palco assieme ai suoi nuovi amichetti, che sono così tanto tosti e alla moda che suo nipote di 14 anni gli chiede se può unirsi alla band anche lui che ha giusto giusto un paio di testi nuovi nuovi qui nella tasca dei jeans.
No Brandon, questo è un mestiere da grandi.
Viene da immaginare che tutto sia iniziato con la solita battuta: “Ehi ragazzi, sentite che riff!”; e gli altri: “O mio dio, tu sei un mago, Lee! Facciamo un disco!”.
E lo fanno, e suona.
Nel senso che i ragazzi vanno a tempo, le chitarre sono accordate, e Lee ogni tanto ricorda Michael Stipe; e a me i R.E.M. piacevano.
E poi basta, non ti regala più niente.
Il disco si apre con Waiting on a dream, caratterizzata dal solito “solo di chitarra cantabile” -praticamente presente dappertutto, a partire dai Sonic Youth. Vogliamo chiamarlo il suo modo di suonare? Ok, mi sta bene.- avvolto in uno strato di fresco rock pop giovane e deciso che parla d’amore. Niente feedback, o noise rock d’altri tempi, Lee Ranaldo è innamorato, o lo è stato 40 anni fa. Fattostà che se lo ricorda bene e ce lo dice a modo suo.
E forse ce lo dice troppo, dato che ogni tanto spunta qualche pezzo acustico, tipo Hammer Blows, che ci fa ricordare gli amori del liceo o cose del genere, e davvero non capiamo perché debba umiliarsi tanto – ecco, io una sbirciatina ai testi di Brandon ce l’avrei data.
A grandi linee l’album rimane piatto per gran parte del tempo (ben 47 minuti punto 5), sempre troppo legato a qualcosa che si è già fatto, fermo all’angolo col pollice in alto.
E poi vabbè, un altro pezzo che esce è Fire island (phases), dove ci troviamo dentro gran parte della musica degli ultimi 50 anni, dai Beatles ai White Stripes. Vogliamo chiamarle citazioni? Ok, mi sta bene, a patto però che la prossima volta mi fai un feat. con i Beatles Jr.
Eh, Ranaldo?